La legge 257/1992, che fissava norme per la cessazione dell’uso dell’amianto, il suo smaltimento e le bonifiche ambientali, non trovò applicazione alla Casaralta: i lavoratori continuarono ad essere esposti all’amianto fino alla fine dell’attività produttiva dell’azienda. Dal 1959 al 1991, i lavoratori esposti furono complessivamente circa 4000, fra i quali si verificarono 57 decessi tra il 1991 e il 2005, mentre molti altri risultarono malati di asbestosi e mesiotelioma.
L’associazione Albea (Associazione lavoratori bolognesi esposti amianto) venne fondata nel 2002 da un gruppo di lavoratori della Casaralta, con il sostegno logistico della Fiom e della Cgil di Bologna. Albea promosse una sensibilizzazione sugli effetti dell’amianto nella provincia di Bologna ed ebbe un ruolo di primo piano nelle vicende processuali che seguirono alla chiusura della Casaralta.
“Fabbrica chiusa per strage” è la scritta in vernice blu che si poteva trovare all’ingresso dello stabilimento a metà anni Duemila, dopo la conclusione del primo processo contro il management aziendale. Giorgio Regazzoni, amministratore delegato tra il 1960 e il 1975, e Carlo Farina, Direttore generale con delega in materia di igiene e sicurezza dal 1972 al 1989, erano stati processati per omicidio colposo plurimo per la morte di 16 ex-opera. Vennero riconosciuti entrambi colpevoli, Farina venne condannato a un anno di reclusione mentre Regazzoni era nel frattempo deceduto.
Le vicende processuali non si chiusero con la sentenza del 2004, ma si protrassero fino al 2017 e videro la condanna dei tre membri del Consiglio di amministrazione. Nel marzo 2017, una nuova sentenza ha condannato per omicidio e lesioni colpose Anna Maria Regazzoni (3 anni), Carlo Regazzoni e Carlo Filippo Zucchini (2 anni). Un risarcimento economico è stato riconosciuto ai familiari delle circa 20 delle 81 vittime direttamente riconducibili all’esposizione amianto.