Curtisa

La Curtisa è stata un’importante azienda meccanica bolognese del XX secolo. Fu fondata nel 1929 con il nome di Curti società anonima. Siccome nel logo aziendale e nella pratica quotidiana si usava l’abbreviazione Curti s.a., ben presto cominciò a essere chiamata Curtisa, nome poi ufficializzato nel 1967 attraverso un cambio di denominazione.

I fondatori erano cinque, e cioè Augusto Curti (1883-1947) titolare di un’officina per lavorazioni metalliche, Achille Folli (1904-1995), geometra con competenze nella cantieristica edile, Giovanni Poggi (1897-1984), ragioniere ed agente di commercio, Carlo Pizzirani (1869-1935), imprenditore nel settore del vetro, e il di lui figlio Luigi Pizzirani (1895-1937), che pure coadiuvava il padre in azienda.

La Curtisa era stata immaginata come una ditta di produzioni metalliche, diretta da Augusto Curti – che aveva appunto specifiche competenze nel settore e che non a caso le aveva dato il nome –, assistito da Folli sul versante tecnico e da Poggi su quello commerciale, mentre i Pizzirani si configuravano come soci finanziatori di un’attività che avrebbe potuto originare alcune economie di scopo con la loro azienda.

La sede legale e amministrativa era fissata in via Belle Arti n. 8, mentre l’officina era collocata in via San Donato n. 44, successivamente divenuta via Ranzani 16, in un’area compresa tra la parrocchia di Sant’Egidio e la ferrovia. La Curtisa si indirizzò fin da subito verso un ambito produttivo nuovo e all’epoca pionieristico, e cioè quello dell’ideazione e della produzione di infissi in ferro. Infatti, in quegli anni era ancora preponderante l’impiego del legno. La produzione veniva fatta su misura e quindi montata con maestranze proprie, principalmente presso clienti interessati all’esclusività, ma anche alla sicurezza.

Nata nell’anno della grande crisi internazionale, la Curtisa stentò a decollare, provocando anche varie frizioni fra i soci. I Pizzirani fuoruscirono dalla società nel 1933; Curti nel 1937, lasciando Poggi e Folli con quote paritetiche. Negli anni della seconda guerra mondiale la produzione di infissi cessò, a favore della fabbricazione di caricatori e di mine, e poi anche di barconi per ponti. Gli occupati raggiunsero le 400 unità, per metà donne. Concluso il conflitto, si tornò a produrre infissi.

In questo mercato, la Curtisa aveva conquistato una crescente credibilità, prima nel contesto italiano e poi, a partire dagli anni cinquanta, anche su quello internazionale. Era molto apprezzata la versatilità e la qualità dei suoi infissi, tanto che poterono essere avviate delle collaborazioni con alcuni dei più importanti architetti e ingegneri dell’epoca – come Giuseppe Vaccaro, Giovanni Guerrini, Marcello Piacentini, Gio Ponti, Pier Luigi Nervi –, con la costruzione di complessi edilizi sia in ambito privato che pubblico. Tra i tanti ricordiamo la Facoltà di Ingegneria di Bologna (1934), i Palazzi dello sport di Bologna (1956) e di Roma (1960), il Palazzo della civiltà italiana all’Eur (1940), la Torre Velasca (1958) e il grattacielo Pirelli (1960), ambedue a Milano, nonché vari aeroporti, fra i quali quelli di Bologna (1933), di Forlì (1934) e di Milano Linate (1937). All’estero furono realizzati, tra gli altri, gli infissi di alcune residenze della famiglia reale saudita e di diversi palazzetti dello sport europei.

Il prodotto di punta dell’azienda fu il «ferrofinestra», un marchio registrato di un infisso che si configurava come una evoluzione dei semplici profili in ferro ottocenteschi, poiché non richiedeva assemblaggi, semplificava le operazioni di montaggio, riduceva il peso complessivo, ne garantiva l’indeformabilità, ne aumentava la durabilità e l’incombustibilità. Inoltre limitava i fenomeni ossidativi e, a differenza dei più tradizionali profili lignei, assottigliava le membrature. Grazie alle possibilità raggiunte con l’innovativo prodotto si aveva l’opportunità di fornire sistemi di chiusura dotati di grande versatilità. Per questo motivo la Curtisa riuscì a raggiungere un indiscusso prestigio.

Negli anni del boom economico, Achille Folli acquistò le azioni del socio Giovanni Poggi, restando l’unico titolare; lo stabilimento, più volte ingrandito, dava lavoro a oltre cento operai. Nell’immaginario collettivo felsineo, fra costoro c’era anche «Spomèti dla Curtisa», personaggio di fantasia, protagonista di un brano del cantautore bolognese Dino Sarti. Di lui si diceva che non usasse la tuta aziendale, ma una divisa da operaio che, pur se simile, era stata realizzata appositamente da una sartoria: Spomèti, infatti, significa «impomatato», e in senso estensivo sbruffone o fighetto.

L’attività della Curtisa entrò in crisi nel corso degli anni settanta, sostanzialmente per l’accentuata concorrenza sul piano internazionale e per la difficoltà di adeguare il prodotto alle nuove esigenze. Si introdussero nuovi infissi, in alluminio, anch’essi apprezzati dalla clientela, ma si mancò di investire con convinzione nello sviluppo di prodotti che utilizzassero le materie plastiche. Dopo una fase di reiterate crisi aziendali, nel 1981 la Curtisa chiuse definitivamente i battenti. Lo stabilimento sarebbe stato abbattuto per fare spazio a un moderno insediamento residenziale.

Bibliografia

  • Antonio Campigotto, Roberto Martorelli (a cura di), La ruota e l’incudine. La memoria dell’industria meccanica bolognese in Certosa, Bologna, Minerva, 2016.
  • Fabio Gobbo (a cura di), Bologna 1937-1987. Cinquant’anni di vita economica, Bologna, Cassa di Risparmio in Bologna, 1987.
  • Luigi Arbizzani, La Costituzione negata nelle fabbriche. Industria e repressione antioperaia nel Bolognese, 1947-1966, 2. ed. ampl., Bologna, Bacchilega, 2001.
  • Giorgia Predari, Giorgia Pirazzini, Curtisa. La produzione del ferrofinestra, 1930-1950, in «ScuolaOfficina», n. 2, 2013, pp. 10-15.

Percorsi tematici

La crisi aziendale che colpì la Curtisa nei primi anni Settanta, acuita dalla scarsità di investimenti e dall’inadeguatezza del parco macchine, spinse la direzione della fabbrica ad annunciare nel luglio 1972 il licenziamento di circa 40 operai, cui i sindacati risposero immediatamente respingendo l’azione della proprietà volta ad una ristrutturazione aziendale basata sulla riduzione dei livelli occupazionali. La minaccia della direzione trovò una decisa risposta anche da parte delle maestranze occupate nello stabilimento succursale di Pian di Macina, dove fu presto predisposto un programma di dieci ore di sciopero. Il settembre successivo vide il licenziamento di 20 lavoratori, di cui 10 invalidi, nonostante la presenza di strumenti di legge che prevedevano la presenza nell’organico aziendale una percentuale di essi. Un ampio movimento di solidarietà tra gli abitanti dei quartieri di San Vitale e San Donato si aprì a favore dei lavoratori Curtisa, a sostegno del rinnovo dei contratti e contro i licenziamenti decisi dalla proprietà, mentre all’interno della fabbrica perdurava lo stato di agitazione delle maestranze: un documento approvato al termine di una riunione in cui erano presenti anche i gruppi consiliari  cittadini sottolineava l’impegno dei quartieri ad assumere un ruolo attivo al fianco delle maestranze e a promuovere uno sviluppo economico basato sull’interesse collettivo ed il ruolo dei lavoratori. La lotta operaia giunse anche a Palazzo Malvezzi, sede della Provincia, dove ci fu un incontro tra una delegazione del consiglio di fabbrica e la commissione Lavoro, cui seguì l’approvazione da parte del Consiglio di un ordine del giorno volto ad evidenziare la gravità della decisione aziendale. Un accordo aziendale nell’ottobre 1972 sancì l’impegno della direzione a mantenere l’organico nel numero minimo di 270 unità sino al termine dell’anno 1973.

Alla fine degli anni Settanta la Curtisa si trovò ad affrontare un aggravamento della crisi aziendale, rinvigorito dalle difficoltà produttive e tecnologiche, a fronte di un numero di addetti pari 208 unità.

Per sopperire all’assenza di liquidità si costituì nel 1979 un pool formato da 12 banche pronto a finanziare per circa 1 miliardo di lire il fabbisogno della fabbrica di Via Ranzani, posta in amministrazione controllata nel marzo dello stesso anno, in modo particolare per l’acquisto di materie prime, per garantire la continuità produttiva ed il pagamento dei salari. La formazione di questo gruppo, reputato dalle maestranze e dal consiglio di fabbrica come un provvedimento tampone e che di fatto non avrebbe aiutato lo stabilimento ad uscire dalla crisi, incontrò una resistenza da parte della Banca Popolare, parte del pool, non disposta a sostenere l’intera quota per essa prevista: manifestazioni e cortei operai spinsero l’ente creditizio ad erogare l’intera quota ad esso assegnata.

Alle spalle della crisi finanziaria vi erano, secondo alcuni spettatori coevi, finalità speculative che riguardavano il terreno sul quale lo stabilimento sorgeva. Già nel maggio 1979 le difficoltà attraversate dalla Curtisa non sembravano legate esclusivamente a fattori di carattere finanziario e tecnologico, ma indotte dalla proprietà aziendale – che nel frattempo aveva costituito una società immobiliare, la Same-Società anonima magazzini emiliani, titolare del terreno su cui insisteva la fabbrica – che in caso di fallimento avrebbero consentito alla Società immobiliare Ced, proprietaria dei terreni circostanti, di rilevarla a prezzo fallimentare, con il fine ultimo di costruire edifici previa licenza edilizia concessa dal Comune di Bologna. Quest’ultimo si disse restio a concederla finché non fosse stato edificato il nuovo stabilimento Curtisa nella zona industriale Roveri, intendendo così salvaguardare il patrimonio aziendale e occupazionale. Tuttavia Diego Cuzzani, titolare della ditta immobiliare Ced e presidente dell’Associazione degli industriali di Bologna attraverso una nota smentì interessi speculativi sull’area.

Nonostante l’azione del Comune di Bologna e della Regione Emilia-Romagna volta a soddisfare le condizioni affinché si potesse realizzare lo spostamento dello stabilimento Curtisa da Via Ranzani in zona Roveri, acquistando l’area industriale e trasformando quella preesistente in edificabile, la proprietà aziendale non sembrava voler mantenere gli accordi presi con le forze politiche ed il sindacato: secondo il consiglio di fabbrica e la FLM provinciale, la direzione aveva l’intenzione di ridimensionare l’area su cui sarebbe sorto il nuovo stabilimento, ridurre l’organico e diminuire il salario a causa del costo del lavoro. Programmi prontamente rigettati dall’assemblea di fabbrica e dalla forze politiche: lo stesso assessore ai Servizi tecnici e progettazione ricordò che la licenza sull’area di Via Ranzani sarebbe stata concessa solo se fosse stato realizzato il nuovo stabilimento e rispettati gli accordi presi. Il rilancio aziendale, anche connesso al rinnovamento tecnologico, era lontano e lo stesso commissario giudiziale evidenziava le difficoltà aziendali, dovute alle mancanze della direzione, che impedivano l’accoglimento di nuovi ordini, con possibili conseguenze sulle circa 190 maestranze occupate. La vertenza Curtisa giunse anche nelle aule di palazzo d’Accursio, sede del Comune, dove la giunta incontrò nel gennaio 1981 il consiglio di fabbrica, la FLM e le rappresentanze sindacali, con l’obiettivo di giungere ad una conclusione in grado di salvaguardare l’occupazione dei lavoratori, anche cercando soluzioni alternative e nuovi assetti proprietari. Intanto, a fronte del carattere di “riservatezza” adottato dalla direzione, gli operai della fabbrica diedero seguito ad assemblee aperte e ad un presidio permanente davanti al cancello di ingresso dello stabilimento. Nuove manifestazioni e scioperi delle maestranze seguirono alla decisione della Società di voler presentare al Tribunale di Bologna una domanda di concordato preventivo con cessione dei beni, al fine di evitare la procedura fallimentare, affittando la fabbrica ad una società, la Gemma (o Gema) srl, il cui amministratore era il capo dell’Ufficio personale della Curtisa stessa. L’ipotesi, che prevedeva la continuità produttiva nella sola sede di Pian di Macina, impossibilitato però ad accogliere logisticamente nuovi operai rispetto ai già occupati, fu giudicata inaccettabile dalla FLM, dai sindacati e dalla giunta comunale, quindi rigettata dall’assemblea dei lavoratori.

Alle diverse proposte avanzate per la salvaguardia dell’occupazione e della continuità produttiva del gennaio e febbraio 1981 fece seguito la decisione del Tribunale di Bologna che, il 13 marzo successivo, respinse la richiesta avanzata dalla direzione e l’affittanza alla società Gemma, avviando la procedura fallimentare e, contestualmente, l’esercizio provvisorio con la gestione straordinaria dello stabilimento sino al successivo 30 giugno: la sentenza fu salutata con favore dai lavoratori e sindacati, che videro l’opportunità di ricercare nuove figure imprenditoriali in grado di rilanciare l’azienda.

A seguito della dichiarazione di fallimento da parte del Tribunale di Bologna, i lavoratori della Curtisa continuarono a lavorare nello stabilimento posto in esercizio provvisorio per un anno. Nel marzo 1982 si profilò la possibilità che la società milanese Sicop acquistasse la fabbrica, anche impegnandosi a mantenere intatto l’organico – allora composto da circa 120 unità – e ampliando la produzione ai prefabbricati leggeri ad uso abitazione e pesanti per grandi lavori. Il consiglio di fabbrica e la FLM provinciale valutarono positivamente la proposta del gruppo milanese, siglando un accordo sindacale con il quale richiedere al Tribunale la gestione della Curtisa da parte della Sicop. La stessa Regione Emilia-Romagna, il Comune di Bologna e la Provincia si espressero a favore di tale ipotesi, ritenendo il programma proposto dalla società milanese rispondente agli obiettivi di continuità produttiva e occupazionale cui i lavoratori e le istituzioni miravano. Nel maggio successivo le maestranze giunsero in corteo a manifestare davanti al Palazzo di giustizia, chiedendo alla magistratura di favorire la soluzione prospettata che avrebbe salvaguardato l’occupazione operaia e la produzione industriale. Alla scadenza dell’esercizio provvisorio, il 31 maggio 1982, l’offerta avanzata dalla società milanese non fu giudicata idonea dal giudice del Tribunale, che la respinse in quanto la perizia giudiziaria valutò l’area circa 9 miliardi di lire, a fronte dei 7 proposti della Sicop. Presto sopraggiunse la liquidazione aziendale.

Ancora nel 1985 la vicenda Curtisa interessava da vicino gli ex lavoratori dello stabilimento di Via Ranzani, che nel frattempo diedero vita ad un Comitato Curtisa: esso avanzò una forte protesta per il mancato riconoscimento alle maestranze delle retribuzioni ammesse dal Tribunale, anche premendo sulle forze politiche locali affinché sbloccassero la suddetta procedura, ed esprimendo preoccupazioni per la modifica alla legge sul Fondo di garanzia per il trattamento di fine rapporto, che avrebbe riguardato solo una piccola percentuale degli ormai ex lavoratori della Curtisa.