La minaccia dei licenziamenti del 1972

La crisi aziendale che colpì la Curtisa nei primi anni Settanta, acuita dalla scarsità di investimenti e dall’inadeguatezza del parco macchine, spinse la direzione della fabbrica ad annunciare nel luglio 1972 il licenziamento di circa 40 operai, cui i sindacati risposero immediatamente respingendo l’azione della proprietà volta ad una ristrutturazione aziendale basata sulla riduzione dei livelli occupazionali. La minaccia della direzione trovò una decisa risposta anche da parte delle maestranze occupate nello stabilimento succursale di Pian di Macina, dove fu presto predisposto un programma di dieci ore di sciopero. Il settembre successivo vide il licenziamento di 20 lavoratori, di cui 10 invalidi, nonostante la presenza di strumenti di legge che prevedevano la presenza nell’organico aziendale una percentuale di essi. Un ampio movimento di solidarietà tra gli abitanti dei quartieri di San Vitale e San Donato si aprì a favore dei lavoratori Curtisa, a sostegno del rinnovo dei contratti e contro i licenziamenti decisi dalla proprietà, mentre all’interno della fabbrica perdurava lo stato di agitazione delle maestranze: un documento approvato al termine di una riunione in cui erano presenti anche i gruppi consiliari  cittadini sottolineava l’impegno dei quartieri ad assumere un ruolo attivo al fianco delle maestranze e a promuovere uno sviluppo economico basato sull’interesse collettivo ed il ruolo dei lavoratori. La lotta operaia giunse anche a Palazzo Malvezzi, sede della Provincia, dove ci fu un incontro tra una delegazione del consiglio di fabbrica e la commissione Lavoro, cui seguì l’approvazione da parte del Consiglio di un ordine del giorno volto ad evidenziare la gravità della decisione aziendale. Un accordo aziendale nell’ottobre 1972 sancì l’impegno della direzione a mantenere l’organico nel numero minimo di 270 unità sino al termine dell’anno 1973.