Zona industriale San Donato

Il quartiere di San Donato prende nome dall’omonima chiesa adiacente al ghetto ebraico, dalla quale, percorrendo l’omonima strada (per un tratto oggi denominata via Zamboni) e oltrepassando l’omonima porta si giungeva a un’area del contado nordorientale. La zona industriale trovò spazio principalmente a ridosso dei viali di circonvallazione, attorno alla ferrovia e lungo via San Donato. Le origini risalgono al 1846, quando nella porzione di territorio fuori le mura fu realizzata l’Officina del gas, ulteriormente ampliata nel 1862. A fine Ottocento e inizio Novecento, varie attività artigiane si insediarono nelle zona, alcune anche dentro le mura, in particolare nelle zone fra via del Borgo e via Mascarella, come le Officine meccaniche Scipione Innocenti (poi Sasib) e la Fabbrica italiana metallurgica (Fim). 

Tra le altre imprese importanti che si collocarono nel quartiere San Donato vi furono gli Stabilimenti Gazzoni, che producevano la celebre idrolitina e altri prodotti alimentari e farmaceutici, e la Curtisa, che realizzava serrande e infissi, passando poi ad altre fabbricazioni meccaniche. Dopo la seconda guerra mondiale si trasferì qui anche la Buton, importante azienda liquoristica che costruì un moderno stabilimento nell’area attualmente occupata da Borgo Masini. Negli anni del boom economico, vari interventi di edilizia economica contribuirono a dare un volto popolare alle zone più periferiche del quartiere San Donato, stemperando parzialmente la sua vocazione industriale.

Bibliografia

  • Federico Bartolini, Dalla luce al calore all’energia. Per una storia della Officina del gas di Bologna attraverso i dibattiti in Consiglio comunale, Bologna, Istituto per la storia di Bologna, 1989
  • Antonio Campigotto, Roberto Curti, Il sole qui non tramonta. L’Officina del Gas di Bologna 1846-1960, Bologna, Grafis, 1990
  • Vincenzo Mioli, S. Donato: storia di un quartiere, Bologna, Comune di Bologna, 2003
  • Giuliano Belfiori, Tra S. Donato e Mascarella. Passato e presente da S. Egidio Dentro a S. Antonio M. Pucci, Bologna, Edigraf, 2005.

Percorsi tematici

La Curtisa è stata un’importante azienda meccanica bolognese del XX secolo. Fu fondata nel 1929 con il nome di Curti società anonima. Siccome nel logo aziendale e nella pratica quotidiana si usava l’abbreviazione Curti s.a., ben presto cominciò a essere chiamata Curtisa, nome poi ufficializzato nel 1967 attraverso un cambio di denominazione.

I fondatori erano cinque, e cioè Augusto Curti (1883-1947) titolare di un’officina per lavorazioni metalliche, Achille Folli (1904-1995), geometra con competenze nella cantieristica edile, Giovanni Poggi (1897-1984), ragioniere ed agente di commercio, Carlo Pizzirani (1869-1935), imprenditore nel settore del vetro, e il di lui figlio Luigi Pizzirani (1895-1937), che pure coadiuvava il padre in azienda.

La Curtisa era stata immaginata come una ditta di produzioni metalliche, diretta da Augusto Curti – che aveva appunto specifiche competenze nel settore e che non a caso le aveva dato il nome –, assistito da Folli sul versante tecnico e da Poggi su quello commerciale, mentre i Pizzirani si configuravano come soci finanziatori di un’attività che avrebbe potuto originare alcune economie di scopo con la loro azienda.

La sede legale e amministrativa era fissata in via Belle Arti n. 8, mentre l’officina era collocata in via San Donato n. 44, successivamente divenuta via Ranzani 16, in un’area compresa tra la parrocchia di Sant’Egidio e la ferrovia. La Curtisa si indirizzò fin da subito verso un ambito produttivo nuovo e all’epoca pionieristico, e cioè quello dell’ideazione e della produzione di infissi in ferro. Infatti, in quegli anni era ancora preponderante l’impiego del legno. La produzione veniva fatta su misura e quindi montata con maestranze proprie, principalmente presso clienti interessati all’esclusività, ma anche alla sicurezza.

Nata nell’anno della grande crisi internazionale, la Curtisa stentò a decollare, provocando anche varie frizioni fra i soci. I Pizzirani fuoruscirono dalla società nel 1933; Curti nel 1937, lasciando Poggi e Folli con quote paritetiche. Negli anni della seconda guerra mondiale la produzione di infissi cessò, a favore della fabbricazione di caricatori e di mine, e poi anche di barconi per ponti. Gli occupati raggiunsero le 400 unità, per metà donne. Concluso il conflitto, si tornò a produrre infissi.

In questo mercato, la Curtisa aveva conquistato una crescente credibilità, prima nel contesto italiano e poi, a partire dagli anni cinquanta, anche su quello internazionale. Era molto apprezzata la versatilità e la qualità dei suoi infissi, tanto che poterono essere avviate delle collaborazioni con alcuni dei più importanti architetti e ingegneri dell’epoca – come Giuseppe Vaccaro, Giovanni Guerrini, Marcello Piacentini, Gio Ponti, Pier Luigi Nervi –, con la costruzione di complessi edilizi sia in ambito privato che pubblico. Tra i tanti ricordiamo la Facoltà di Ingegneria di Bologna (1934), i Palazzi dello sport di Bologna (1956) e di Roma (1960), il Palazzo della civiltà italiana all’Eur (1940), la Torre Velasca (1958) e il grattacielo Pirelli (1960), ambedue a Milano, nonché vari aeroporti, fra i quali quelli di Bologna (1933), di Forlì (1934) e di Milano Linate (1937). All’estero furono realizzati, tra gli altri, gli infissi di alcune residenze della famiglia reale saudita e di diversi palazzetti dello sport europei.

Il prodotto di punta dell’azienda fu il «ferrofinestra», un marchio registrato di un infisso che si configurava come una evoluzione dei semplici profili in ferro ottocenteschi, poiché non richiedeva assemblaggi, semplificava le operazioni di montaggio, riduceva il peso complessivo, ne garantiva l’indeformabilità, ne aumentava la durabilità e l’incombustibilità. Inoltre limitava i fenomeni ossidativi e, a differenza dei più tradizionali profili lignei, assottigliava le membrature. Grazie alle possibilità raggiunte con l’innovativo prodotto si aveva l’opportunità di fornire sistemi di chiusura dotati di grande versatilità. Per questo motivo la Curtisa riuscì a raggiungere un indiscusso prestigio.

Negli anni del boom economico, Achille Folli acquistò le azioni del socio Giovanni Poggi, restando l’unico titolare; lo stabilimento, più volte ingrandito, dava lavoro a oltre cento operai. Nell’immaginario collettivo felsineo, fra costoro c’era anche «Spomèti dla Curtisa», personaggio di fantasia, protagonista di un brano del cantautore bolognese Dino Sarti. Di lui si diceva che non usasse la tuta aziendale, ma una divisa da operaio che, pur se simile, era stata realizzata appositamente da una sartoria: Spomèti, infatti, significa «impomatato», e in senso estensivo sbruffone o fighetto.

L’attività della Curtisa entrò in crisi nel corso degli anni settanta, sostanzialmente per l’accentuata concorrenza sul piano internazionale e per la difficoltà di adeguare il prodotto alle nuove esigenze. Si introdussero nuovi infissi, in alluminio, anch’essi apprezzati dalla clientela, ma si mancò di investire con convinzione nello sviluppo di prodotti che utilizzassero le materie plastiche. Dopo una fase di reiterate crisi aziendali, nel 1981 la Curtisa chiuse definitivamente i battenti. Lo stabilimento sarebbe stato abbattuto per fare spazio a un moderno insediamento residenziale.

Bibliografia

  • Antonio Campigotto, Roberto Martorelli (a cura di), La ruota e l’incudine. La memoria dell’industria meccanica bolognese in Certosa, Bologna, Minerva, 2016.
  • Fabio Gobbo (a cura di), Bologna 1937-1987. Cinquant’anni di vita economica, Bologna, Cassa di Risparmio in Bologna, 1987.
  • Luigi Arbizzani, La Costituzione negata nelle fabbriche. Industria e repressione antioperaia nel Bolognese, 1947-1966, 2. ed. ampl., Bologna, Bacchilega, 2001.
  • Giorgia Predari, Giorgia Pirazzini, Curtisa. La produzione del ferrofinestra, 1930-1950, in «ScuolaOfficina», n. 2, 2013, pp. 10-15.