Gli anni Ottanta cominciarono con nuove lotte volte alla salvaguardia dell’occupazione, minacciata da piani di ristrutturazione aziendale che minavano gli organici, in modo particolare la manodopera specializzata. La FLM bolognese, proclamando uno sciopero di tre ore il 1° luglio 1981, intendeva aprire una reale discussione sull’orientamento politico delle associazioni padronali, evidenziando la tendenza sempre più diffusa ad agire al di fuori degli accordi aziendali, aggirando il consiglio di fabbrica e la FLM stessa, anche ricorrendo allo strumento della cassa integrazione con l’intento di autoridurre il personale. Questo fenomeno, valido per diverse realtà industriali della città, interessò da vicino la Calzoni: la direzione decise di realizzare un nuovo stabilimento dedicato alla produzione in serie, presso la zona industriale del Bargellino, senza discuterne con le organizzazioni sindacali della fabbrica durante la trattazione dell’accordo aziendale firmato solamente tre mesi prima.
Un cambio di strategia sembrò profilarsi alla metà del decennio quando, nel 1985, un accordo aziendale proposto dalle organizzazioni sindacali fu accettato dalla direzione della fabbrica. L’accordo, ritenuto la punta più avanzata della contrattazione bolognese, prevedeva l’informazione preventiva alle forze sindacali sulle nuove tecnologie e sui piani di ristrutturazione da adottare, la sperimentazione di un contratto part-time per chi ne avesse bisogno, la formazione professionale all’interno dell’orario di lavoro, flessibilità oraria in relazione all’utilizzo delle nuove tecnologie ed altro ancora. Allora lo stabilimento occupava circa 650 maestranze.
Gli anni 1986 e 1987 videro i lavoratori della Calzoni, insieme a molti operai metalmeccanici occupati nella città, impegnati nelle manifestazioni e negli scioperi per il rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici, culminato nel referendum del febbraio 1987 nel quale le maestranze si espressero sulla bozza di contratto siglata dalle tre associazioni sindacali di categoria.