Dalla crisi aziendale all’abbandono dello stabilimento

Tra la fine degli anni Ottanta ed i primi del decennio successivo, la Calzoni andò incontro ad una grave crisi. Nell’aprile 1988 la direzione della fabbrica lasciava intendere la volontà di voler ridurre l’organico da 630 occupati a circa 550, anche ricorrendo a strumenti quali la cassa integrazione a 0 ore, lanciata in quei giorni per le successive quattro settimane. La ristrutturazione aziendale aveva l’obiettivo di abbassare i costi e ringiovanire l’organico, sostituendo le maestranze più anziane con quelle più giovani, ammodernare gli impianti e innovare la produzione.

Nel maggio 1989 una piattaforma contenente un contratto integrativo fu approvata da un referendum aziendale. Tra i punti discussi, il premio ferie, il salario, la formazione professionale, la costituzione di una banca dati cui i lavoratori potessero accedere per svolgere i loro compiti, un orario di lavoro più elastico e l’istituzione di pensioni integrative. Un’attenzione particolare fu rivolta alla questione ambientale, all’inquinamento acustico e atmosferico, all’utilizzo di sostanze tossiche. La direzione aziendale si impegnò a fermare la cassa integrazione il 6 giugno successivo.

Ancora tra il maggio ed il giugno 1990 i lavoratori Calzoni presero parte agli scioperi e alle manifestazioni svoltesi in città contro il rinnovo del contratto di lavoro nazionale, scaduto il 31 dicembre dell’anno precedente, alle condizioni proposte da Confindustria.

Ulteriori crisi aziendali portarono successivamente allo smembramento dell’azienda e all’abbandono dello stabilimento produttivo situato in Via Emilia Ponente, successivamente demolito per lasciare spazio al sito commerciale Esselunga.