Cogne

 

Le origini di questa fabbrica risalgono agli anni immediatamente precedenti al secondo conflitto mondiale, ma affondava le radici in un’azienda più longeva: Società anonima miniere di Cogne, fondata nel 1909. Nel 1916, tale impresa mineraria fu acquistata dalla genovese Ansaldo, tra le principali aziende italiane nella produzione cantieristica, bellica, e più in generale nei settori siderurgico e meccanico. Negli anni fra le due guerre, la Cogne divenne un’azienda di spicco della siderurgia italiana, ma la crisi bancaria e industriale dei primi anni trenta portò il gruppo Ansaldo a entrare nell’orbita dell’Istituto per la ricostruzione industriale (Iri).  Di conseguenza anche la Società nazionale Cogne – come fu ridenominata tale impresa – ricadde sotto la protezione pubblica.

Nel 1938, la direzione della società stabilì l’apertura di un nuovo stabilimento a Imola, dove sarebbero state avviate alcune produzioni belliche. La fabbrica Cogne di Imola fu collocata in alcuni edifici lungo l’attuale via Cogne, alle spalle della stazione ferroviaria, che in precedenza avevano ospitato un molino, detto Poiano, e uno zuccherificio. La produzione fu avviata il 1 settembre 1939. Durante la seconda guerra mondiale, la Cogne di Imola fu interessata da una produzione crescente, che sul finire del 1940 aveva portato un incremento degli addetti fino a 1.900 unità. Nel 1943 si toccò la punta di 2.300 lavoratori, fra i quali 700 donne, dato che molta manodopera maschile era stata chiamata al fronte.

A partire dall’inverno fra il 1943 e il 1944, la Cogne fu un centro di crescente cultura antifascista, con gruppi di operai e di operaie attivi nella Resistenza. Sul finire del conflitto, i tedeschi tentarono di asportare varie macchine dalla Cogne, ma furono anticipati dagli stessi lavoratori che le avevano trafugate di nascosto e occultate nei fienili e in altre strutture rurali circostanti. Danneggiata seriamente dai bombardamenti alleati del maggio e del luglio del 1944, la fabbrica cessò praticamente tutte le attività fino al 14 aprile 1945, giorno della Liberazione di Imola, quando il Cln locale si iniziò a preoccupare attivamente del ripristino di una qualche produzione.

Il dopoguerra fu segnato da una partecipazione corale della cittadinanza, con il lavoro spesso gratuito e volontario di centinaia e centinaia di ex operai a risistemare lo stabilimento bombardato. I macchinari scampati al conflitto perché nascosti nelle campagne furono riportati in fabbrica, mentre la Cassa di risparmio di Imola concedeva un mutuo di un milione di lire per gli indispensabili investimenti. Nel 1946 molti reparti erano già in funzione e fabbricavano pezzi di ricambio per biciclette e per moto, lame per affettatrici, ma soprattutto componenti elementari di automazioni industriali. In particolare, nel 1947 fu messa in produzione una filatrice per lana.

Auesta fase fu per lo più autogestita, con le maestranze che agirono di propria iniziativa e nelle completa indipendenza dai vertici societari, che stavano a Torino e Aosta. Alcuni operai più preparati, che avevano avuto un ruolo nel Cln o che lo avevano in seno ad alcuni partiti di massa come il Pci o il Psi guidarono questa fase. Tra costoro assumeva un ruolo di primo piano Carlo Nicoli, de facto direttore dello stabilimento e artefice della ripresa postbellica.   

Nel 1949, la direzione torinese della Cogne riprese in mano le redini dello stabilimento di Imola: il nuovo amministratore delegato, il senatore democristiano Teresio Guglielmone, ordinò il trasferimento di una buona parte del gruppo che aveva autogestito la fabbrica fino a poco tempo prima. Lo stesso Carlo Nicoli fu destinato al polo produttivo che la Cogne aveva a Milano. Si trattò di un provvedimento controproducente, perché inaugurò una stagione di proteste, picchetti, scioperi, manifestazioni e boicottaggi, che avrebbe contraddistinto quasi tutti gli anni Cinquanta.

La direzione della Cogne rispose come in altre fabbriche bolognesi e italiane, mettendo in campo provvedimenti disciplinari e licenziamenti. Il 7 ottobre 1953, ben 162 lavoratori della Cogne ricevettero una lettera di licenziamento: erano quasi tutti iscritti al Pci, al Psi, alla Cgil, e in vari casi avevano un passato di partigiani. Dopo un duro scontro sindacale, 50 tra costoro furono riassunti, mentre agli altri fu pagata una sorta di indennità. Molti dei licenziati trovarono occupazione presso altre aziende del territorio o aprirono in proprio o con qualche socio una ditta artigiana.

Nel frattempo alla Cogne la situazione si fece meno tesa, anche in virtù del traino del boom economico, che consentì il graduale miglioramento delle condizioni contrattuali dei lavoratori. Nei primi anni sessanta, l’azienda raggiunse una leadership internazionale nelle macchine per filatura e ampliò la produzione a quelle per la preparazione a monte, introducendo l’innovativa tecnologia della «testa rotante», poi diffusasi a livello mondiale.

Il 1968, che in buona parte del paese fu contraddistinto da manifestazioni studentesche e operaie, portò un clima di rinnovate tensioni anche alla Cogne, fino al sostanziale blocco della produzione a seguito di 120 ore di sciopero in tre mesi. In questo caso la direzione aziendale cedette alle richieste del sindacato su molti punti. Due anni dopo si aveva un’altra importante svolta, ovvero il distacco della fabbrica di Imola dalla Società nazionale Cogne. Nasceva una nuova azienda autonoma, denominata «Cogne macchine tessili – Cognetex», sempre di proprietà pubblica, ma non più all’interno dell’Iri, bensì nel neonato Ente di Stato per la gestione delle aziende minerarie e metallurgiche (Egam). Per tutti gli anni settanta, lo stabilimento imolese continuò a distinguersi per una radicata cultura sindacale, ma anche una produzione assolutamente competitiva a livello internazionale, tanto che l’aumento delle commesse spinse in alto anche l’occupazione, che raggiunse il picco dei 940 dipendenti nel 1974.

L’anno successivo l’Egam fu al centro di uno scandalo e si decise la sua chiusura, con il collocamento delle aziende controllate presso altri gruppi di Stato. La Cognetex fu posta sotto l’egida dell’Ente nazionale idrocarburi (Eni). In questa fase realizzò il nuovo stabilimento, lungo la via Selice, ma soffrì la mancanza di un piano industriale convincente, che portò a una sensibile crisi dell’azienda. Nel 1993, nel pieno della stagione delle privatizzazioni, fu acquistata dal gruppo Finlane, della famiglia Orlandi, che vantava interessi nel settore meccanotessile e chimico. Ma la Cognetex era già una compagine di secondo piano nel contesto imolese, perché aveva perso terreno in termini di fatturato, di quote di mercato e di capacità innovativa, a fronte di una crescita complessiva del tessuto economico nel quale era inserita.

Gli anni novanta e duemila portarono a un ulteriore ridimensionamento della Cognetex, anche nell’ambito di una ristrutturazione del gruppo di riferimento, ridenominato Sant’Andrea Novara. Nel 2014, l’azienda e il marchio sono passate a una newco formata da quattro azionisti, ovvero Manlio Nobili, Roberto Aponi, l’Elettrotecnica imolese e la Curti costruzioni meccaniche. Infine, il 30 novembre 2019 l’azienda è stata acquisita dal gruppo francese Nsc. Lo storico stabilimento di via Cogne è stato oggetto di importanti ristrutturazioni e trasformato in un condominio che ospita appartamenti, uffici ed esercizi commerciali.

Bibliografia

  • Andrea Pagani, Cogne Imola. Storia di un movimento operaio, Imola, Bacchilega, 1998.
  • Cogne Imola. Specchio di una città, documentario con regia di Fausto Pullano, da un’idea di Claudio Caprara e Nello Ferrieri, Union Comunicazione, 1998
  • Sabato sera. Quarant’anni della nostra vita (1962-2002), Faenza, Tipografia faentina, 2002
  • Nazario Galassi, Figure e vicende di una città, vol. II, Età moderna e contemporanea, Imola, Coop Marabini, 1986.

Percorsi tematici

Il ’68 alla Cogne si aprì con la grande mobilitazione per ottenere dal governo nazionale l’apertura di credito alla Corea del Sud e sbloccare quindi la commessa da 2,4 miliardi di lire; la risposta degli operai alla comunicazione della mancata apertura, giunta il 9 aprile alla commissione interna, fu una serie di manifestazioni cui presero parte operai, impiegati, istituzioni e cittadinanza. Grazie all’imponente mobilitazione a luglio si ottenne lo sblocco della commessa. La mobilitazione produsse anche una grande coesione e solidarietà tra tutti i lavoratori, operai e impiegati, una particolarità della Cogne di Imola. Si decise così l’apertura di una vertenza il 28 agosto 1968 basata su una piattaforma rivendicativa molto avanzata di 11 punti. Il primo è paradigmatico della radicalità delle istanze: parità di retribuzione tra uomini e donne. Tra agosto e dicembre di quell’anno si realizzarono più di 120 ore di sciopero con livelli di adesione altissimi; il 5 dicembre la direzione fu costretta ad accettare tutti i punti della vertenza. La Cogne grazie a questo accordo all’avanguardia diventò un punto di riferimento per tutta la regione ma non solo.

Il 1969 è caratterizzato anche alla Cogne di Imola dalla convergenza tra lotte operaie e studentesche; sono molti gli studenti infatti a supportare nel luglio del 1969 il cosiddetto “sciopero della tenda”: per una settimana lavoratori, studenti e solidali sostarono davanti alla fabbrica esponendo un cartello con lo slogan “la produzione cresce, la paga cala”. È infatti in corso la vertenza per l’aumento del premio di produzione, che si conclude con una vittoria il 2 luglio 1969, l’accordo non stabilì solo l’incremento del premio annuo da 71.500 a 100.000 lire, ma anche il diritto di assemblea dentro l’azienda.

Gli anni ’70 si aprirono alla Cogne di Imola con la costituzione, il 10 dicembre del 1970, di una società autonoma dalla Società Nazionale Cogne, con la ragione sociale “Cogne macchine tessili – Cognetex”. Sul versante delle lotte operaie invece il decennio cominciò con il lancio di una piattaforma rivendicativa avanzata proposta dal consiglio di fabbrica e dalle organizzazioni sindacali i cui punti principali erano: il superamento del cottimo; l’inquadramento unico; il riconoscimento del consiglio di fabbrica; la risoluzione dei problemi dell’ambiente di lavoro. La vertenza sindacale si chiuse vittoriosamente a novembre del 1971 dopo 50 ore di sciopero contro l’intransigenza dell’Intersind. I contenuti della piattaforma ebbero inoltre l’obiettivo di scardinare l’organizzazione capitalistica del lavoro, puntando alla ricomposizione delle mansioni contro la tendenza alla parcellizzazione del lavoro. L’intento era quello di aumentare il controllo operaio sulla produzione.

Lo scontro tra operai e direzione per migliorare ulteriormente l’inquadramento unico si fece più duro e raggiunse l’apice nel marzo del 1973 quando gli operai picchettarono la fabbrica per 5 giorni consecutivi impedendo sia l’entrata delle maestranze che l’uscita delle merci; la direzione fu costretta a cedere: non solo aumentando i salari ma concedendo anche un inquadramento più alto di quanto aveva stabilito in precedenza. La battaglia sul cottimo invece ebbe una svolta con l’accordo, raggiunto nel 1974 in seguito a 26 ore di sciopero, in cui si ottenne la disincentivazione del cottimo attraverso la definizione di un guadagno minimo garantito e l’unificazione delle curve di rendimento, che portarono al superamento delle divisioni e delle differenziazioni, aprendo la strada al totale smantellamento dell’iniqua forma di retribuzione. 

Gli anni ’70 si aprirono con l’ingresso della Cognetex nell’Egam (Ente gestione attività minerarie), in cui si formò il più importante gruppo industriale italiano nel campo della produzione di macchine tessili. La Cognetex infatti, grazie al grande ammodernamento di quel periodo produsse una gamma rinnovata di prodotti all’avanguardia. Fu un momento di grande innovazione, intraprendenza e crescita che indusse la dirigenza ad avviare la costruzione di un nuovo stabilimento in via Selice. Ma questo decennio segnò anche il passaggio dall’offensiva operaia alla strategia difensiva per il mantenimento dei livelli occupazionali e delle conquiste fatte negli anni precedenti. I lavoratori della Cognetex infatti, specie nella seconda metà del decennio, furono costretti a scioperare, sostenuti dall’amministrazione comunale e dalla cittadinanza tutta in difesa dell’occupazione e della fabbrica e per imporre nuovi indirizzi economici e produttivi alle aziende a capitale pubblico. Sono gli anni della crisi del settore tessile (1974) e del fallimento e il conseguente scioglimento dell’Egam (1977), a seguito degli scandali in cui fu coinvolto. A pesare soprattutto fu la mancanza di un serio piano di rilancio industriale per tutto il settore meccano tessile e per la Cognetex, che intanto aveva cominciato la costruzione del nuovo stabilimento. Un tema questo che desta molta preoccupazione per la mancanza dei capitali previsti dall’Egam. Ad allarmare le maestranze e le organizzazioni sindacali e ad indurle a mobilitarsi per il rilancio dell’azienda, fu anche la situazione disastrosa in cui versavano le partecipazioni statali; si chiedeva infatti insistentemente un confronto con le istituzioni affinché cominciasse al più presto la ristrutturazione del gruppo delle aziende ex Egam salvaguardando e potenziando il patrimonio tecnico e produttivo.

Il 3 aprile 1978 in una assemblea alla Cognetex, a cui parteciparono oltre ai lavoratori le forze politiche e sindacali, emersero con forza due parole d’ordine: salvezza e rilancio. Oltre a voler evitare lo smantellamento e la privatizzazione, si chiedeva il passaggio delle aziende ex Egam, tra cui la Cognetex, all’Eni con l’attuazione di un piano industriale di settore. Fu proprio in quell’anno che l’azienda, insieme alle altre del meccano-tessile ex Egam, entrò nel gruppo Eni. I lavoratori e le organizzazioni sindacali denunciarono immediatamente i pesanti ritardi nel risanamento produttivo e commerciale e nella ricerca tecnologica; ma il Consiglio di fabbrica lamentò anche l’immobilità della direzione e il rifiuto di ascoltare le richieste dei lavoratori. Per questo motivo, già alla fine del 1979, venne proclamato lo sciopero degli straordinari. Nonostante l’opposizione del Consiglio di fabbrica, la direzione prima applicò una settimana di cassa integrazione ordinaria per sei mesi tra il 1982 (anno in cui diventò definitivamente operativo il nuovo stabilimento) e il 1983 e poi, dal 1984, comunicò la cassa integrazione straordinaria a zero ore. I cassaintegrati si riunirono in assemblea e, oltre a denunciare l’aggravamento della situazione, chiesero l’impegno del governo a definire il ruolo delle aziende pubbliche e a finanziarle. A destare ulteriore preoccupazione fu un ordine di servizio emanato dalla direzione in cui si prefigurò il solo mantenimento della produzione nello stabilimento di Imola e la delocalizzazione dell’Ufficio tecnico, quello commerciale e di progettazione a Pordenone. Nel 1984 ebbero luogo mobilitazioni, a cui parteciparono lavoratori, sindacati, enti locali e delegazioni di altre fabbriche, contro l’ipotesi di chiusura e concentramento della produzione in Friuli. l’Eni decise dunque di non chiudere lo stabilimento imolese ma di avviare una ristrutturazione con l’estromissione di 228 esuberi, che avrebbero fatto calare ulteriormente le maestranze a quota 445 rispetto alle 878 del 1980. Gli esuberi furono scongiurati da un accordo, che rilanciò la produzione e l’occupazione, siglato nel 1986, anno in cui comunque le maestranze erano più che 689.

Se nel triennio 1986-89 la Cognetex visse un periodo di ripresa, all’inizio del nuovo decennio si invertì la tendenza e lo stabilimento si trovò ad affrontare un periodo di grave crisi che lo condusse alla privatizzazione. Nonostante il governo e l’Eni continuassero a rassicurare i lavoratori, sostenendo l’inesistenza di una manovra di privatizzazione e che anzi era in corso la predisposizione di un nuovo programma industriale per la Cognetex, la preoccupazione aumentò, così come le indiscrezioni sull’invece sempre più probabile privatizzazione oppure sulla chiusura della fabbrica. Per questo motivo gli operai si organizzarono e rilanciarono scioperi, manifestazioni e assemblee aperte alle istituzioni e alla cittadinanza. La direzione intanto, tra aprile e giugno 1992, stabilì 7 settimane di cassa integrazione. Malgrado le promesse del governo e di Eni a fine luglio giunse la comunicazione dello smantellamento del settore pubblico meccano-tessile e della collocazione della Cognetex sotto il controllo della Sant’Andrea di Novara. Ma il timore per una imminente smobilitazione e chiusura aumentò; gli operai decisero così di scioperare e manifestare presso la stazione dei treni di Imola, occupando simbolicamente i binari per una decina di minuti. A settembre del ‘92 l’assemblea degli azionisti della Savio decise definitivamente per la privatizzazione della Cognetex; il Consiglio di fabbrica chiese di non svendere un patrimonio di capacità tecniche e di qualità, ma al contrario di approvare un piano industriale. Considerata la continua esclusione dei rappresentanti dei lavoratori dalle trattative, la mancanza di comunicazione e di chiarezza sul futuro dello stabilimento, il continuo rinvio di incontri programmati, gli operai decisero di scioperare il 10 novembre e bloccare via Selice all’altezza del casello autostradale.

A fine marzo 1993 la privatizzazione è definitiva: la Cognetex diventò di proprietà della Sant’Andrea di Novara che si impegnò a mantenere 362 lavoratori (rispetto ai 405 impiegati in quel momento e ai 517 di un anno prima), con la garanzia del Ministro del lavoro che non ci sarebbero stati licenziamenti e che gli esuberi sarebbero rimasti a carico dell’Eni-Savio. Se da un lato ci fu soddisfazione per l’accordo raggiunto, dall’altro rimase la preoccupazione per la sua mancata applicazione.

Gli anni 2000 segnarono il definitivo crollo dell’occupazione alla Cognetex di Imola. La fabbrica vide nel nuovo millennio l’alternarsi dei vari ammortizzatori sociali applicabili, dalla cassa integrazione ordinaria a quella straordinaria fino alla stipula di un contratto di solidarietà. Quest’ultimo è stato applicato nel 2009 a 68 dipendenti sui 72 totali, a seguito della ristrutturazione aziendale dovuta alla crisi del 2008, per evitare il licenziamento di 31 esuberi. Nel 2014 con una nuova ristrutturazione il marchio e l’azienda passarono a una newco formata da quattro azionisti; in quello stesso anno l’occupazione calò ulteriormente a 51 lavoratori. Con l’acquisizione dell’azienda da parte del gruppo francese Nsc nel 2019 i dipendenti erano più che 27, nel 2022 ne sono rimasti 6.