Le mobilitazioni operaie durante l’amministrazione controllata

Nonostante l’azione del Comune di Bologna e della Regione Emilia-Romagna volta a soddisfare le condizioni affinché si potesse realizzare lo spostamento dello stabilimento Curtisa da Via Ranzani in zona Roveri, acquistando l’area industriale e trasformando quella preesistente in edificabile, la proprietà aziendale non sembrava voler mantenere gli accordi presi con le forze politiche ed il sindacato: secondo il consiglio di fabbrica e la FLM provinciale, la direzione aveva l’intenzione di ridimensionare l’area su cui sarebbe sorto il nuovo stabilimento, ridurre l’organico e diminuire il salario a causa del costo del lavoro. Programmi prontamente rigettati dall’assemblea di fabbrica e dalla forze politiche: lo stesso assessore ai Servizi tecnici e progettazione ricordò che la licenza sull’area di Via Ranzani sarebbe stata concessa solo se fosse stato realizzato il nuovo stabilimento e rispettati gli accordi presi. Il rilancio aziendale, anche connesso al rinnovamento tecnologico, era lontano e lo stesso commissario giudiziale evidenziava le difficoltà aziendali, dovute alle mancanze della direzione, che impedivano l’accoglimento di nuovi ordini, con possibili conseguenze sulle circa 190 maestranze occupate. La vertenza Curtisa giunse anche nelle aule di palazzo d’Accursio, sede del Comune, dove la giunta incontrò nel gennaio 1981 il consiglio di fabbrica, la FLM e le rappresentanze sindacali, con l’obiettivo di giungere ad una conclusione in grado di salvaguardare l’occupazione dei lavoratori, anche cercando soluzioni alternative e nuovi assetti proprietari. Intanto, a fronte del carattere di “riservatezza” adottato dalla direzione, gli operai della fabbrica diedero seguito ad assemblee aperte e ad un presidio permanente davanti al cancello di ingresso dello stabilimento. Nuove manifestazioni e scioperi delle maestranze seguirono alla decisione della Società di voler presentare al Tribunale di Bologna una domanda di concordato preventivo con cessione dei beni, al fine di evitare la procedura fallimentare, affittando la fabbrica ad una società, la Gemma (o Gema) srl, il cui amministratore era il capo dell’Ufficio personale della Curtisa stessa. L’ipotesi, che prevedeva la continuità produttiva nella sola sede di Pian di Macina, impossibilitato però ad accogliere logisticamente nuovi operai rispetto ai già occupati, fu giudicata inaccettabile dalla FLM, dai sindacati e dalla giunta comunale, quindi rigettata dall’assemblea dei lavoratori.