Giuseppe Minganti nel 1919 apre una bottega artigiana in Via della Fontanina, dove fabbrica copialettere e mezze coppette contenitrici di cachet medicinali, ma anche un piccolo trapano verticale, la prima macchina utensile della ditta. La crescita dell’attività lo spinge ben presto a trasferirsi, nel 1925, in Via Ferrarese 83. La produzione si amplia, con macchine bobinatrici e trecciatrici per reti metalliche, foratrici multiple, macchine per officine ferroviarie e trattori. Lo sviluppo trova seguito negli anni Trenta, favorito dalle politiche prima autarchiche e poi belliche del Regime fascista. Risale al 1936 la fabbricazione dei primi torni semiautomatici a revolver, ma vengono prodotte anche delle impacchettatrici per sigarette e macchine per cuscinetti a sfere, stantuffi e cerchioni di locomotive, armi.
La Minganti incrementa le proprie vendite non solo in campo nazionale, ma anche all’estero, tramite le esportazioni di impianti completi in Gran Bretagna, URSS ed altri Paesi. Sul finire degli anni Trenta le maestranze sono meno di 200, ma nell’imminenza del conflitto il numero degli occupati sale vertiginosamente superando il migliaio. Durante il Secondo Conflitto Mondiale la Minganti si distingue per la produzione di torni speciali tipo Potter ed un tornio con dentatura tipo Gleason.
Come in altre fabbriche bolognesi, vi erano nuclei di operai attivi nel Partito comunista clandestino e che si impegnarono in varie forme di resistenza e sabotaggio, a partire dagli scioperi del marzo 1943. Nelle incursioni aeree del 25 settembre 1943 sulla città di Bologna lo stabilimento subisce gravi danni. Dopo il trasferimento della fabbrica a Palazzolo sull’Oglio nel 1944, grazie ad un accordo tra la proprietà e l’amministrazione nazi-fascista, molti operai entrarono nelle brigate partigiane.
All’indomani del secondo conflitto mondiale, non secondariamente grazie alle pressioni esercitate dalle maestranze, le Officine Minganti ripresero la loro attività a Bologna. La difficile ricostruzione è resa ancor più problematica dall’improvvisa morte del fondatore, Giuseppe Minganti, che si spegne il 14 novembre 1947 lasciando le redini aziendali in mano alla moglie, Gilberta Gabrielli Minganti.
Tra anni Quaranta e Cinquanta, la Minganti era una fabbrica molto politicizzata: secondo le fonti dei primi anni Cinquanta su 550 occupati circa 450 risultavano iscritti alla Fiom-Cgil, mentre 250 erano membri del Partito comunista italiano e 40 del Partito socialista italiano.
Nel clima di forte conflittualità sociale e scontro politico che caratterizzò la Bologna dei primi anni della guerra fredda, non mancarono azioni repressive anche alla Minganti. Il culmine venne raggiunto nell’aprile del 1954, quando furono annunciati 170 licenziamenti, motivati con la riduzione di esportazioni e concorrenza del settore. A ben vedere, dei 170 a cui era giunta la lettera di licenziamento 162 risultavano iscritti al Pci e i rimanenti al Psi. Gli stessi erano attivisti sindacali e costituivano il nucleo di punta dell’organizzazione sindacale in fabbrica. Con la legge del 1974, molti di loro si videro riconosciuto lo status di “licenziato per motivi politici e sindacali”.
Nella seconda metà degli anni Cinquanta, Gilberta Minganti rinsalda la posizione dell’azienda nel panorama dell’industria meccanica nazionale. Nel 1958, viene inaugurato un nuovo complesso manifatturiero, sempre in via Ferrarese, adatto a soddisfare le esigenze della fabbrica. La crescita produttiva prosegue anche negli anni Sessanta, con gli accordi di collaborazione con la Metalexport di Varsavia e la Italmex di Milano per la vendita esclusiva delle macchine utensili polacche in Italia.
Con la stagione di grande conflittualità inaugurata dal Sessantotto e proseguita fino ai primi anni Settanta, i lavoratori e le lavoratrici della Minganti presero parte alle mobilitazioni di carattere nazionale, per il rinnovo del contratto e per le riforme sociali, ma furono protagonisti anche di significative vertenze aziendali. Numerosi gli accordi aziendali siglati tra il 1968 e il 1977, riguardanti temi come cottimo e premio di produzione, qualifiche e salario, diritti sindacali, orario di lavoro, ambiente di lavoro e decentramento produttivo.
Dal punto di vista della sindacalizzazione, nel 1970 poco meno del 25% delle maestranze risultava iscritta alla Fiom-Cgil, con un calo vertiginoso rispetto agli anni Cinquanta. Con il processo di unità sindacale che sfociò nella creazione della Federazione Lavoratori Metalmeccanici (FLM), che comprendeva Fim, Fiom, Uilm, i tassi di sindacalizzazione subirono un’impennata, per quanto rimanesse una significativa differenza tra operai (60%) e impiegati (15%). Tra la fine degli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta, anche l’occupazione crebbe, passando dai 540 addetti del 1968 ai 622 del 1975. Le donne risultavano 39, di cui 35 con la qualifica di impiegate.
All’inizio degli anni Ottanta, la crisi che investì la Minganti generò una nuova e imponente mobilitazione da parte delle maestranze. Dall’amministrazione controllata del 1981 al fallimento, avvenuto il 17 maggio 1983, si susseguirono picchetti dentro e fuori i cancelli della fabbrica e numerose manifestazioni per le strade della città. La vertenza giunse anche nelle aule del Consiglio comunale di Bologna, dove gli stessi lavoratori e lavoratrici portarono la loro voce. L’assenza di azioni concrete che consentissero di risolvere i punti critici della crisi (razionalizzazione organizzativa, ricapitalizzazione, qualificazione dei settori commerciali) ebbe come esito l’avvio dell’esercizio provvisorio, prima di due mesi, poi – a seguito del finanziamento di 1 miliardo e 500 milioni da parte di 6 istituti di credito – esteso fino al 31 marzo e nuovamente a 1°ottobre 1984, successivamente al 31 gennaio 1985. Quando la Minganti venne rilevata da una nuova società formata dal gruppo Valpa-Pronim (la prima torinese, la seconda di Milano), nel 1985, i dipendenti ancora in forza risultavano 200. La Minganti S.p.A. si trasformò in Minganti Sistemi di Produzione S.p.A., continuando a costruire macchine utensili e aggiungendo a queste apparati del settore automazione. Un nuovo cambio societario, con il ritorno alla denominazione Minganti S.p.A., vide all’inizio del 1987 l’uscita della società Valpa e l’entrata della società fiduciaria Von Willer di Milano a nome di un gruppo anonimo. L’azienda sopravvisse, con una forza lavoro ulteriormente ridotta, fino alla prima metà degli anni Novanta quando lo stabilimento di Via Ferrarese cessò definitivamente di essere un luogo del lavoro e della produzione industriale.
Nei primi anni Duemila, hanno inizio ingenti lavori di recupero e rifunzionalizzazione. Nel 2006 il complesso delle Officine Minganti riapre come centro commerciale, con all’interno un supermercato e numerose altre attività. Dopo un breve periodo di chiusura, dal mese di maggio 2019 è stata avviata una nuova esperienza commerciale.
Come in tante altre fabbriche di Bologna (Casaralta, Ducati, Sasib, Sabiem, ecc.), anche i lavoratori della Minganti furono protagonisti, nel biennio 1968-1969, di assemblee ed agitazioni volte alla rivendicazione e acquisizione di diritti ritenuti quanto mai urgenti e non più rimandabili. In risposta a ciò non mancarono azioni tese ad intimidire ed esercitare pressione sui lavoratori da parte della proprietà e dei vertici aziendali, che così cercavano di impedire l’unità tra impiegati e operai, prontamente denunciate da parte delle organizzazioni sindacali. Nel concitato periodo nacque la Sezione Sindacale Aziendale (SSA) Minganti per favorire la partecipazione diretta dei lavoratori all'attività sindacale all’interno della fabbrica, dando vita anche ad un bollettino di informazione a diffusione interna, “il martello”, in cui dibattere problemi e condizioni dei lavoratori.
A seguito di numerose lotte, un importante accordo aziendale fu siglato nel luglio 1969, il quale prevedeva miglioramenti salariali, la proroga del premio di produzione, l’autorizzazione alla distribuzione della stampa sindacale nei locali adibiti a mensa e alle assemblee operaie in orario non lavorativo, il controllo e l’assistenza dei lavoratori da parte delle commissioni interne e, soprattutto, progressi sul cottimo, quest’ultimo ancora basato su un accordo risalente al 1965.
L’onda lunga delle contestazioni operaie iniziate nel 1968 giunse agli anni Settanta. Nel maggio 1971 cominciò un grande sciopero con una nuova piattaforma aziendale che rivendicava migliori condizioni di lavoro in fabbrica, la parificazione delle retribuzioni nella stessa categoria, la riduzione del numero delle qualifiche e l’inquadramento unico fra operai e impiegati. A ciò si aggiungevano punti nodali quali il cottimo, per cui fu chiesto un minimo garantito, e il premio di produzione. La piattaforma avanzata dalle organizzazioni sindacali fu rigettata dalla proprietà che, per rendere esplicita la sua intransigenza in vista di possibili agitazioni, già nei mesi precedenti la vertenza aveva ridotto il lavoro in alcuni reparti, portando fuori dalla fabbrica parte della produzione. Nel settembre successivo, a seguito di 60 ore di sciopero, si giunse all’accordo tra sindacati e proprietà, che prevedeva l’unificazione salariale, l’inquadramento unico per operai e impiegati, il riconoscimento di titoli di studio per il passaggio di categoria e la possibilità di ottenere qualifiche più alte per anzianità.
Nel dicembre 1973 venne predisposta un’altra importante piattaforma, incentrata “sulla mobilità professionale, sul superamento del cottimo, sul fondo sociale degli Enti locali (1%), sul consiglio di fabbrica e sul premio”. Si trattava però di conquiste parziali, poiché continuarono assemblee ed incontri per favorire il ritorno in azienda di quei tecnici qualificati, il cui lavoro era stato esternalizzato dalla Direzione fuori dalla fabbrica. Nel 1974 una nuova lotta conclusa dopo 87 ore di sciopero vide il raggiungimento di importanti conquiste, tra cui l’abolizione del cottimo, l’aumento del premio di produzione, il raggiungimento di un sistema retributivo basato su categorie, la riduzione della presenza reale sul luogo di lavoro a 7 ore e mezzo.
Nella seconda metà del decennio, però, complici la crisi del settore delle macchine utensili ed un’organizzazione aziendale non ottimale, emerse la difficoltà a collocare i propri prodotti sui mercati. Furono diverse le conquiste dei lavoratori durante la vertenza del 1977, tra cui: il pieno riconoscimento al consiglio di fabbrica del diritto di discussione e intervento sull’organizzazione del lavoro; la riorganizzazione della struttura commerciale, degli uffici di progettazione e programmazione; investimenti in nuovi macchinari; aumento salariale e miglioramento dell’ambiente di lavoro. Tuttavia queste non riuscirono a rilanciare le attività produttive e commerciali, andando incontro a difficoltà sempre maggiori.
Le crescenti criticità economiche che la Minganti si trovò ad affrontare nel corso degli anni Settanta portarono, a partire dal 1980, ad una situazione finanziaria in cui l’indebitamento verso le banche e lo squilibrio tra ordini e fatturato misero in crisi la fabbrica, il cui disavanzo era di 11 miliardi. Ciò fu anche dovuto ad una gestione poco attenta della struttura organizzativa aziendale. La bassa capacità produttiva e l’inadeguata riqualificazione del parco macchine e dei beni strumentali portarono il 10 maggio 1981 all’amministrazione controllata, la quale sarebbe durata due anni, fino al 1983, al fine di ricapitalizzare e riorganizzare in termini commerciali e produttivi le Officine.
Nel momento in cui il Tribunale di Bologna dichiarò l’amministrazione controllata, le maestranze occupate nello stabilimento erano circa 600, a cui si aggiungevano altri 100 lavoratori operanti nella Socomec, azienda affiliata alla stessa Minganti. Nell’ottica di una ristrutturazione dell’organico aziendale, nel giugno 1981 la direzione ventilò la possibilità di ridurre il personale di circa 60 unità, anche utilizzando strumenti come la cassa integrazione. Tale opzione fu tuttavia rigettata dall’assemblea di fabbrica, che rispose con una vertenza volta ad ottenere una soluzione stabile e duratura. Nel settembre successivo, però, 80 dei 600 dipendenti risultavano in cassa integrazione.
Per la salvaguardia ed il rilancio delle Officine, su iniziativa della Regione Emilia-Romagna, del Comune e dell’Amministrazione provinciale di Bologna, nacque un comitato cittadino con il compito di coordinare le iniziative a favore della fabbrica. Ciò nonostante, la crisi aziendale si fece sempre più grave. Si susseguirono gli scioperi e i cortei dei lavoratori, ma nel gennaio 1982 le maestranze erano già scese da 600 a 440, mentre per la Socomec gli addetti passarono da 100 a 60. Per la FLM le cause della crisi erano da rintracciarsi nella mancanza di una “testa pensante” che potesse prendere le redini dell’apparato organizzativo e produttivo.
L’aggravamento della situazione aziendale cominciò, già nel 1982, a far ipotizzare un possibile fallimento, a fronte anche del drastico calo degli ordinativi. Nonostante l’attività del sindacato ed il confronto con gli enti locali, e con il Ministero dell’Industria, non fu assunta nessuna iniziativa atta a favorire una concreta programmazione settoriale. Una proposta del Temsi, organizzazione di consulenza incaricata di redigere un piano per il rilancio dell’azienda, fu giudicata dal consiglio di fabbrica e dai sindacati “sostanzialmente inadeguata, contraddittoria ed in quanto tale inaccettabile”. Essa prevedeva la produzione standardizzata dei prodotti e non più personalizzata, la messa in cassa integrazione dei dipendenti fino a raggiungere 227 addetti attivi, impostando così una gestione di emergenza che mirava ad un taglio consistente dei costi, senza che vi fosse però una strategia di produzione attiva. La mancata attuazione di politiche aziendali volte al risanamento della crisi, cui si aggiungevano ritardi nel pagamento dei salari, portarono le maestranze a condurre scioperi e manifestazioni per le vie cittadine, ed anche ad organizzare assemblea aperte nei locali adibiti a mensa.
La situazione di costante declino portò la proprietà ad annunciare ufficialmente la possibilità di vendere l’azienda, onde favorirne la ricapitalizzazione ed il rilancio. Un’apposita seduta del Consiglio comunale nel maggio 1982, riunito per discutere sulla crisi della fabbrica, sollecitava governo, imprenditori e banche ad assumere un impegno di politica industriale che potesse permettere la ripresa della produttività ed il superamento della crisi. Il mancato accordo tra le banche aderenti al pool di finanziamento delle Officine Minganti rallentò le operazioni di ripresa.
Nei mesi a seguire non ci fu l’attesa riorganizzazione aziendale ed il suo risanamento restò incompiuto, mentre la direzione approvò nel marzo 1983 un piano di ridimensionamento dell’organico, fermamente rigettato dal sindacato, anche per la mancanza di prospettive di ricollocamento. Ad una settimana dal termine dell’amministrazione controllata (13 aprile), le maestranze ancora operanti presso la Minganti erano 345, mentre la situazione debitoria della società ammontava a circa 13 miliardi.
Quando il 13 aprile 1983 terminò il regime di amministrazione controllata, la proprietà non aveva ancora presentato un piano di risanamento alle banche e ai creditori, così il presidente del tribunale diede avvio ad un concordato extragiudiziale, in cui si sarebbe pronunciato circa la situazione dell'azienda. Assemblee aperte in fabbrica e cortei dei lavoratori Minganti si svolsero nei giorni successivi, giungendo il 28 aprile a manifestare presso la sede della regione Emilia-Romagna in viale Silavani e a Palazzo d’Accursio, dove discussero con il vice sindaco Gherardi e l’assessore alle attività produttive Castellucci del Comune di Bologna.
Nonostante la possibile continuità produttiva, la chiusura dell’ultimo semestre in attivo e l’inserimento delle Officine da parte della Giunta regionale nell’elenco delle aziende di importanza strategica, il 17 maggio 1983 fu dichiarato il fallimento per la Minganti. Subito i lavoratori diedero il via a turni di presenza in fabbrica, con l’obiettivo di evitare la dissoluzione dell’unità produttiva: nonostante l’erogazione degli stipendi fosse ferma da tre mesi, gli operai si mobilitarono con presidi davanti ai cancelli e proseguendo il lavoro nei reparti e negli uffici.
Anche a seguito della sentenza, la FLM territoriale e gli Assessori al lavoro del Comune, della Provincia e della Regione, continuarono a lavorare affinché si potesse trovare una via d’uscita e salvare l’occupazione e la produzione, proseguendo la ricerca di una banca che pagasse gli stipendi arretrati dei lavoratori e tentando il commissariamento governativo dell’azienda, quest’ultimo richiesto anche dal Comitato cittadino. Sul finire del 1983, dei 270 dipendenti, solo 80 erano in attività.
L’attività produttiva della Minganti proseguì anche l’anno successivo, con una forza lavoro in continua diminuzione, tanto da giungere, nel dicembre 1984, a circa 40 operai attivi su circa 200 addetti, la maggior parte dei quali in cassa integrazione.
Allo scadere dell’esercizio provvisorio, nel 1985, il gruppo Valpa-Pronim siglò con la FLM un accordo, già valutato positivamente dai lavoratori, teso ad evitare il fallimento aziendale. La società ottenne la gestione della Minganti da parte del Tribunale di Bologna per i successivi tre anni e si impegnò a riassumere circa 200 lavoratori, oltre che ad implementare l’organico con altre professionalità assenti nella fabbrica. Tuttavia, il piano di ristrutturazione prevedeva che solo 50 lavoratori fossero in servizio, mentre gli altri erano destinati prima alla cassa integrazione per 30 mesi, poi alla Cig speciale per i successivi 2 anni.
L’azienda riprese quota, anche con la revisione produttiva di una linea di macchine utensili americane fabbricate dalla Motch, ma continuarono a destare grandi problemi la mancata assunzione degli impegni riguardanti la mobilità e la riconversione professionale dei lavoratori posti in cassa integrazione, su cui fortemente premevano Fiom, Fim e Uilm, mentre l’Associazione degli Industriali della Provincia di Bologna non prevedeva l’attivazione dei corsi di riqualificazione del personale che pure si era impegnata ad erogare sottoscrivendo l’accordo nel gennaio 1985 con la FLM e la Valpa-Pronim.
Il nuovo cambio societario, nel 1987, con l’entrata della Von Willer di Milano portò un’importante dote che avrebbe dovuto contribuire al definitivo rilancio della Minganti, che dal punto di vista produttivo si apprestava ad abbandonare la classica produzione di torni, frese e trapani, per far posto alla torneria a controllo numerico. Allora vi erano 120 lavoratori alle dipendenze, di cui 33 in cassa integrazione e due in aspettativa sindacale. Nel febbraio dello stesso anno, vennero annunciati i licenziamenti per questi ultimi, ritirati nel mese successivo a seguito di pressioni esercitate da Cgil-Fiom, Cisl-Fim e Uil-Uilm, le quali firmarono un accordo con la controparte industriale che prevedeva l’estensione della cassa integrazione speciale per altri 12 mesi. Questo fu accolto con favore dall’assessore provinciale all’industria Ciavatti, che presto riunì il Comitato Minganti per favorire il rinnovo della cassa integrazione.
Nonostante l’ingresso della nuova società e la produzione di nuovi strumenti, l’azienda non riuscì a trovare un solido posizionamento sul mercato andando incontro ad un lento declino, terminato con il definitivo fallimento.
Quando nel 1997 terminò la procedura fallimentare iniziata nel 1983, il sito che ospitava la fabbrica, dai capannoni dove si svolgeva la produzione agli uffici tecnici, venne presto abbandonato, cadendo in uno stato di degrado. All’inizio del nuovo millennio, però, cominciarono i lavori per riqualificare un ampio settore territoriale dell’allora quartiere Bolognina: il piano prevedeva la rifunzionalizzazione dell’edificio industriale a fini commerciali. Così nel marzo 2006 ci fu l’inaugurazione del primo Centro Commerciale Officine Minganti, con circa 40 negozi, presentato con lo slogan “Una fabbrica di incanti”. Il progetto architettonico, curato dallo studio Open Project di Bologna vinse anche il premio internazionale Plaza alla fiera di settore, il Mapic, tenuto a Cannes. Tuttavia, l’avventura commerciale disattese presto le aspettative, resistendo fino al 2018, ma non oltre, quando gli ultimi punti vendita rimasti attivi all’interno del Centro decisero di chiudere.
Una nuova apertura nel maggio 2019 ha rilanciato le aspettative commerciali del sito, rallentate dalla pandemia da Covid-19 scoppiata nel 2020 e successivamente nuovamente disattese.
La riqualificazione e rifunzionalizzazione del sito hanno dato vita ad un interessante esperimento di rigenerazione urbana, in cui storia e memoria della città di Bologna si mescolano con il presente, in una giustapposizione di significati: accanto a quello commerciale, con le vetrine dei diversi negozi, vi è il senso storico ed il passato industriale dell’edificio, plasticamente rappresentato da alcune macchine utensili conservate ancora oggi nei suoi spazi esterni e dal grande carro ponte visibile in alto nel grande spazio interno adibito ad entrata.