La Società anonima bolognese industrie elettro-meccaniche, meglio nota con l’acronimo Sabiem, venne fondata nel 1921. Si trattava di una fusione tra quattro aziende preesistenti, e cioè la Zamboni & Troncon, le Officine elettromeccaniche bolognesi (Oeb), la ditta Pedretti e le Officine elettromeccaniche Morini & C. La più nota era certamente la Zamboni & Troncon, nata nel 1906 per iniziativa del trevigiano Giuseppe Troncon, meccanico, e del bolognese Luigi Zamboni, già dipendente dell’Arsenale militare cittadino e dal 1904 artigiano in proprio. La sede era in via Frassinago n. 19, dove in alcuni locali venivano prodotte macchine da pasta. In particolare, si distinse una «tortellinatrice» capace di realizzare 5.000 tortellini in un’ora, ovvero l’equivalente del lavoro di venti sfogline, che avrebbe ottenuto vari premi e riconoscimenti.
Nel corso della Prima guerra mondiale, la Zamboni & Troncon produsse tecnologie per il settore bellico, in particolare delle macchine per pesare la balistite da inserire nei bossoli e anche alcuni componenti dei motori degli aeroplani militari. Finito il conflitto, la società si sciolse. Nel 1919 Luigi Zamboni partì per Marsiglia, dove aprì una nuova azienda meccanica di sua proprietà, che però non avrebbe avuto successo, e Giuseppe Troncon cercò nuovi partner. Si arrivò così alla nascita della Sabiem, che si ritrovò ad avere due sedi: lo stabilimento di via Frassinago e un secondo polo produttivo al Foro Boario – che qualche anno prima era stato ribattezzato piazza Trento e Trieste – dove in precedenza operava la Oeb.
La produzione della Sabiem – il cui direttore tecnico era Giuseppe Troncon – spaziava notevolmente. Si fabbricavano molte macchine per la produzione di pasta, lunga e corta, ma anche tecnologie per il packaging delle sigarette, nonché impianti per la movimentazione di paratoie e servomotori, su commessa di un’altra azienda bolognese, la Calzoni. Nel 1923, tutta la produzione veniva concentrata in piazza Trento e Trieste, mentre gli ambienti di via Frassinago ritornavano a Luigi Zamboni, rientrato in Italia per dare vita a un nuovo progetto imprenditoriale, le Officine meccaniche Zamboni (Omz), ancora oggi esistenti e con sede a Casalecchio di Reno.
Contemporaneamente, la Sabiem abbandonava la produzione di tecnologie alimentari, per concentrarsi su un settore molto diverso, ovvero la produzione di ascensori e montacarichi. Del resto era l’ambito nel quale aveva sempre operato, con mezzi molto più modesti, la ditta Pedretti, ovvero una delle quattro imprese che avevano costituito la Sabiem. Non venivano però del tutto abbandonate le altre produzioni, in particolare quelle su commessa, tanto che nel 1929 si lasciò la sede di piazza Trento e Trieste per trasferirsi in un nuovo stabilimento a Santa Viola, in via Emilia Ponente 129, proprio di fronte alla Calzoni.
Ma fu soprattutto la produzione di ascensori a regalare le maggiori soddisfazioni alla Sabiem, capace di crearsi un circuito commerciale puntando su un elemento all’epoca decisivo, ovvero la sicurezza e l’affidabilità dei propri impianti. Nel 1933, si firmava un disciplinare con alcune altre ditte del settore per fissare alcuni standard in tal senso, portando anche a una stabilizzazione del mercato in termini di prezzi e di margini. Cinque anni dopo fu siglato un accordo con la Westinghouse elevator company, parte del gruppo multinazionale Westinghouse electric company, per la produzione e vendita di ascensori veloci in Italia, ma anche di montacarichi e di scale mobili. Anche se la Seconda guerra mondiale avrebbe interrotto momentaneamente lo sviluppo dell’azienda, si trattava di una partnership che avrebbe lanciato la Sabiem alla conquista del mercato italiano. Nel 1939, gli azionisti cedettero l’azienda a una holding di partecipazione, la Società italiana per le strade ferrate meridionali (poi Bastogi).
Negli anni del secondo dopoguerra e del boom economico, l’aumento demografico e il forte processo di inurbamento – conseguente all’abbandono delle campagne – portarono alla nascita di nuove aree residenziali in tutte le città italiane. E così in periferia sorgevano sempre più spesso palazzoni popolari di più piani, che di conseguenza dovevano essere dotati di ascensore. Non solo, ma l’ingresso nella cosiddetta società del benessere faceva sì che anche nei centri storici o nei quartieri realizzati tra XIX e XX secolo si operassero delle ristrutturazioni e delle riqualificazioni edilizie che comportavano l’installazione dell’ascensore. Inoltre, il grande sviluppo economico moltiplicava il numero dei capannoni e delle fabbriche, che molto spesso avevano bisogno di montacarichi e di altre tecnologie per il sollevamento, così come aumentavano i centri commerciali e i grandi magazzini che sceglievano di dotarsi di scale mobili.
Negli anni Sessanta e Settanta, la Sabiem divenne una delle aziende più grandi di Bologna, con maestranze particolarmente qualificate, perché la produzione – non standardizzata o ripetitiva – richiedeva alti livelli di sicurezza, con numerosi controlli relativi alla qualità e un importante servizio di assistenza e manutenzione post-vendita. In un contesto di mercato favorevole, la Sabiem fu comunque molto abile a rimanere al passo con i tempi, investendo nell’innovazione tecnologica e dei materiali, con una crescente integrazione delle componenti meccaniche con quelle elettroniche, per realizzare ascensori più veloci, più silenziosi, con l’automazione dell’apertura delle porte, e in definitiva più moderni.
Fu anche una fase di internazionalizzazione e di crescita sui mercati esteri, con filiali in Sud Africa, Hong Kong, Francia, Tunisia e America Latina. Circa il 10% del fatturato continuava a essere ascrivibile a produzioni meccaniche non legate alle tecnologie per il sollevamento, come le presse per l’industria automobilistica e altri macchinari simili.
Nel 1985, la Sabiem veniva rilevata dall’azienda finlandese Kone, che operava a livello internazionale e che produceva ascensori dal 1910. Lo stabilimento bolognese entrò in un piano di razionalizzazione che comportò una sua progressiva marginalizzazione. Di fatto la Kone aveva acquisito la rete commerciale e il marchio, ma non pareva troppo interessata a concentrare nell’area di Santa Viola progettazioni o produzioni di rilievo, tant’è che le agitazioni sindacali furono spesso nutrite, con la denuncia di piani industriali che lasciavano intravvedere un certo disimpegno.
Nel 2000, un imprenditore bolognese – Marco Bisteghi, già titolare della Costruzioni elettromeccaniche ascensori e montacarichi (Ceam), storica concorrente della Sabiem – organizzò una cordata per rilevare il ramo d’azienda della Kone che faceva riferimento al polo produttivo di Santa Viola. Dopo varie trattative, Bisteghi e i suoi soci divennero i proprietari della Sabiem, che aveva in forza circa 120 addetti, mentre altrettanti occupati erano nella rete di assistenza e manutenzione che era rimasta in capo alla divisione italiana della Kone. Tuttavia questo progetto non fu coronato da successo. Nel 2008 la Sabiem ha definitivamente chiuso; nel 2015 una parte dello stabilimento è stato riqualificato per ospitare l’Opificio Golinelli, una cittadella della conoscenza e della cultura dell’omonima Fondazione, mentre altre ali della vecchia azienda sono state riconvertite a uffici.
Il Sessantotto alla Sabiem si aprì con la protesta dei lavoratori contro la scelta unilaterale dell’azienda di diminuire l’orario di lavoro, e di conseguenza il salario; da ciò scaturì una vertenza che puntava anche all’aumento del premio di produzione, non solo per sopperire al calo della retribuzione ma soprattutto per far fronte all’aumento dei ritmi di lavoro, dovuto alla ristrutturazione e ad una rinnovata organizzazione del lavoro. Nei primi mesi del 1968 i lavoratori scioperarono spesso, specie a marzo e aprile, contro l’intransigenza della direzione, incapace di trovare una soluzione ai problemi sollevati dalla vertenza. Il 15 luglio, dopo una novantina di ore di sciopero, le organizzazioni dei lavoratori e l’azienda raggiunsero un accordo che stabilì per il reparto officina, quello maggiormente interessato dalla vertenza, un aumento del premio di produzione proporzionale agli incrementi di produttività. L’anno successivo, il 1969, vide ancor al centro delle rivendicazioni operaie il premio di produzione, di cui si richiedeva un’ulteriore revisione, insieme alle richieste di diritti sindacali, come il diritto di assemblea, la libertà di diffusione della stampa e della propaganda sindacale e la tutela degli attivisti sindacali; l’accordo stabilì anche l’istituzione di una commissione paritetica con il compito di studiare la revisione del premio di produzione. Gli scioperi messi in atto durante la vertenza furono caratterizzati da livelli di articolazione mai visti in precedenza: il 21 maggio 1969 si realizzarono 8 scioperi da 45 minuti al reparto officina, 6 ore totali al reparto fonderia e 6 ore per gli impiegati; tutti con una adesione del 100%. Il 5 luglio venne siglato l’accordo, che sancì la trasformazione di una parte del premio di produzione – il 30% – in minimo garantito, ma anche il diritto di assemblea in fabbrica a cui potevano partecipare i membri dei direttivi sindacali esterni e la ristrutturazione del comitato antinfortunistico aziendale con all’interno anche i rappresentanti dei lavoratori. Alla fine dell’anno, a novembre, cominciarono le assemblee tra gli operai della Sabiem e gli studenti delle Aldini-Valeriani in cui si discuteva il miglioramento delle condizioni in fabbrica e una scuola non asservita alla volontà dei padroni.
Gli anni ’70 si aprirono alla Sabiem con una vertenza i cui punti centrali erano: il riconoscimento del consiglio di fabbrica come organo unico di rappresentanza dei lavoratori con il diritto di intervento in merito a tutti gli aspetti della salvaguardia della salute dei lavoratori, il controllo operaio sulle condizioni e l’ambiente di lavoro e la modificazione dei criteri di inquadramento unico (abolizione della quarta e quinta categoria e delle sperequazioni esistenti in ogni categoria). Per il rifiuto dell’azienda di trattare le questioni dirimenti della vertenza il consiglio di fabbrica indisse 3 ore di sciopero articolato da effettuare tra il 34 giugno e il 3 luglio del 1971. A metà settembre le maestranze scesero nuovamente in sciopero e tennero un corteo molto partecipato che giunse fin sotto la palazzina della direzione generale. Il 28 settembre, a 3 mesi dall’apertura della vertenza, venne raggiunto l’accordo: le maestranze ottennero tutti i punti richiesti. La questione della salute nel luogo di lavoro tornò L’accordo del 1976 stabilì infatti di distaccare un ingegnere e collocarlo a capo dell’ufficio “funzione ambientale” con il compito di studiare le innovazioni tecniche utili a bonificare l’ambiente. all’ordine del giorno in diversi momenti della storia della fabbrica: a luglio del 1973 gli operai si fermarono mezz’ora per scioperare contro il caldo torrido e contro l’insufficiente impianto di areazione; 3 anni dopo, nel 1976, le maestranze protestarono contro la concentrazione di diverse lavorazioni intorno all’acciaieria, che comportava problemi per tutti i lavoratori a causa della presenza di rumore, gas e polveri, ma anche per l’utilizzo di acidi, resine e agglomerati. Per questi motivi le organizzazioni sindacali e il consiglio di fabbrica rivendicarono di poter monitorare i processi di ristrutturazione in atto. Alla fine del decennio, a giugno del 1979, si aprì una vertenza con al centro la richiesta di una chiara politica industriale sugli investimenti, l’assunzione di giovani e, nuovamente, investimenti sulla salute e sulla sicurezza sul luogo di lavoro, specie per la fonderia, e l’adeguamento dei salari per recuperare il potere d’acquisto perso. Le parti raggiunsero l’accordo, dopo scioperi e manifestazioni, solo il 4 dicembre 1980.
Fin dall’inizio del nuovo decennio, a marzo 1980, che le maestranze denunciarono i pesanti ritardi dell’azienda: non solo essa non era riuscita a stare al passo con l’innovazione tecnologica e con la progettazione, ma non era nemmeno riuscita a mantenere i livelli di qualità. I lavoratori denunciarono inoltre la volontà dell’azienda di mettere a rischio il patrimonio professionale della fabbrica; la finanziaria Bastogi, proprietaria dello stabilimento non investiva più in ricerca e, sostenendo di voler riorganizzare la fabbrica, la direzione aveva chiuso l’attrezzeria, l’ufficio tecnico officina e il centro meccanografico. Nell'aprile 1984 giunse l’annuncio che la Sabiem era in vendita; il principale interesse dei lavoratori fu che venissero mantenuti i livelli occupazionali e che la nuova proprietà avesse rilanciato gli investimenti in progettazione e in sviluppo industriale. A preoccupare era la prassi e la regolarità con cui Bastogi stava liquidando le aziende e licenziando le maestranze; anche se appariva strano che ciò stesse avvenendo alla Sabiem che dopo la crisi del 1979-'80. Nello stesso anno cominciò la lunga vertenza per l’accordo integrativo aziendale che durò mesi, con 60 ore di sciopero, sfociò in una grande manifestazione il 16 maggio 1985 e vide la presenza di decine di delegazioni di consigli di fabbrica delle altre aziende ai presidi davanti ai cancelli. Il 28 maggio si trovò finalmente un accordo. Intanto ad inizio anno la Sabiem era stata acquistata dalla multinazionale finlandese Kone Oy, che si impegnò a mantenere il marchio Sabiem, la sua tradizionale produzione, la rete di vendita, a non chiudere la fonderia e a dare nuovo impulso allo sviluppo dell’innovazione tecnologica. Le promesse non vengono però mantenute: in un momento di alta tensione per il rinnovo del contratto integrativo aziendale, nel 1989, che era stato raggiunto dopo 8 mesi di lotta e 80 ore di sciopero, la Sabiem decise a febbraio di vendere le fonderie Sabiem alla Fochi, azienda bolognese con lo stabilimento a Calderara di Reno. Il mese successivo le maestranze riuscirono però a strappare alla direzione un ulteriore accordo: dopo ben 97 ore di sciopero si convenne su un aumento di 105.000 lire riparametrate ai vari livelli, contro le 50.000 proposte dall’azienda, più una parte variabile tra 300.000 e 700.000 annui in base alla produttività dell’azienda. Nonostante la costante crescita nella seconda metà degli anni ’80, specie in termini di utili, ma anche per gli ordini e l’occupazione, la Kone Oy dimostrò nel tempo che l’unica intenzione era quella di utilizzare il marchio Sabiem e assorbire la sua rete di vendita; ciò comportò, a partire dal decennio successivo, la crisi della fabbrica.
Gli anni Duemila segnarono la crisi della Sabiem che avrebbe portato alla definitiva chiusura nel 2008. Nel 2000 l’imprenditore Mario Basteghi guidò una cordata che rilevò la fabbrica; egli mantenne 120 dei 250 lavoratori. I restanti, secondo l’accordo, sarebbero dovuti rimanere in carico alla multinazionale finlandese nel ramo dei servizi e della commercializzazione. Sin da subito la Kone diede segni di disimpegno in quella realtà produttiva e di scarso interesse per l’azienda, se non per svuotarne la rete di vendita e assorbirne il marchio. La crisi cominciò nel 1997, quando i vertici aziendali annunciarono la perdita di 70 miliardi; 60 lavoratori vennero collocati in cassa integrazione e iniziarono a circolare voci in merito alla chiusura e alla vendita dello stabilimento. La crisi si accentuò e rimasero una sessantina di lavoratori, finché la produzione non cessò alla fine del 2007. Gli operai decisero così di picchettare la fabbrica, per evitare la vendita dei macchinari e chiesero con insistenza la dichiarazione di fallimento. Con questa sarebbe scattata in automatico la cassa integrazione e, con la messa all’asta dello stabilimento sarebbe potuto subentrare un acquirente, da riprendere così la produzione. Intanto intorno agli operai Sabiem si mobilitarono diversi attori sociali che portarono la loro solidarietà: venero organizzate cene per raccogliere fondi da destinare loro, nel gennaio 2008 suonarono gli Skiantos al Palanord e il pastificio Corticella donò 12 chili di pasta a ciascun operaio. Fu proprio a gennaio del 2008 che venne dichiarato il fallimento; il sindacato raggiunse un accordo, di cui i lavoratori non furono pienamente soddisfatti, con l’immobiliare Raggi, che intanto aveva acquistato il terreno su cui sorgeva lo stabilimento: i proprietari si dovevano impegnare a fornire corsi di formazione per il periodo di mobilità e trovare un’occupazione agli operai. Nel caso fosse il lavoratore a rifiutare l’impiego dopo la formazione, a questo andrebbero 10.000 euro di indennizzo, se invece fosse Raggi a non fornire soluzioni adeguate al livello di professionalità la somma salirebbe a 25.000. In cambio i Raggi avrebbero potuto procedere con la costruzione sull’area, in cui sarebbero dovuti sorgere, dopo un’opera di bonifica, una zona residenziale, un’area verde e un parcheggio. L’operazione non andò in porto e in una parte dell’ex Sabiem sorse nel 2015 l’opificio Golinelli.